Può sembrare sorprendente dire che la qualità di una casa di
Gerrit Rietveld non si possa cogliere dall’esterno. Almeno se lo associamo
all’immagine più illustre con cui è storicamente identificato: la Schrö-der
House del 1924, progetto paradigmatico, condotto con zelo appassionato e fedele
alla sintassi De Stijl e ai dettami di Theo Van Doesburg. ‘ABC visivo dello
spazio’, titolava la sala in cui fu esposta nella prima retrospettiva che
Utrecht gli dedicò nel 1958; oppure ‘oggetto
di design, forse, più che architettura’, per Bruno Zevi che ne traeva un
senso di bozzetto ingrandito, costruzione transitoria. Un’ambiguità che
tuttavia per Zevi era ‘una qualità positiva: in un panorama di edifici
presuntuosi, falsamente solidi, le levitanti e diafane strutture di Rietveld
sembrano scusarsi di occupare uno spazio e in effetti non costituiscono
ingombro’.
Da queste parole traspare una
sorta di ‘understatement’ insediativo, tra l’altro comune a molte opere del
maestro olandese. Dopo quel primo manifesto programmatico Rietveld ha
realizzato oltre cento case indipendenti. Un’accurata selezione, tra quelle che
più si sono mantenute fedeli alle origini, è oggi documentata nel libro Gerrit
Rietveld. Wealth of sobriety realizzato dal fotografo Arjan Bronkhorst. Sono
ritratte insieme con i loro attuali abitanti – spesso gli stessi committenti originari
o i loro eredi, oppure sensibili cultori – e compongono uno straordinario e dettagliato racconto visivo. Un’idea
di abitare d’autore che, complessivamente, rivela una discrezione non solo
insediativa ma anche di linguaggio, come afferma Ida van Zijl nel testo
introduttivo: ‘Dopo aver visitato tutte quelle case abbiamo imparato una cosa.
In generale le sue ville unifamiliari sono poco appariscenti, semplici scatole
rettangolari nascoste nella vegetazione’.
La Verrijn Stuart Summerhouse è
un caso esemplare ed eccezionale allo stesso tempo: una casa di vacanza di
doghe di legno verde e tetto di paglia dai forti spioventi. Completata nel
1941, appoggia su una base di cemento conficcata nell’acqua con 53 pali lunghi
7 metri, e in pianta è sì un rettangolo, ma curvato a ventaglio: si apre
espansiva verso est e si raccoglie, concava e protettiva, verso ovest. Instaura
così una doppia relazione con il paesaggio di Kievitsbuurt sui laghi di
Loosdrecht, a Breukelen, formato da isole lunghe e parallele, sostenute da
palancole: strette lingue di terra ricavate nel XVII e XVIII secolo dallo scavo
della torba, disposta ad asciugare in lunghe file. Un paesaggio grafico, in
qualche modo, astratto, che si potrebbe commentare con Ennio Flaiano, quando
nel 1958 scriveva Mondrian pittore realista. In ogni caso la casa vi si
immerge, a cavallo di un’isola, e infine risulta con esso in completa sintonia.
Questo l’esterno. Ma è poi all’interno che, in effetti, Rietveld si mette a fuoco, anche per la sua vocazione artigiana. Luce, spazi, dettagli: un camino circolare di muratura che, come una cerniera, mette a registro doppie altezze e soppalchi con la generale curvatura dello spazio, la qualità di una sinuosa scala di legno, la secca geometria metallica di una serratura, le scelte cromatiche ormai lontane dalla dittatura dei colori primari, un giallo, un rosa chiaro, le puntuali impaginazioni d’arredo, i suoi celebri mobili. E così via. È qui che l’obiettivo di Bronkhorst rivela, con sguardo ipersensibile, tutta la sobria maestria di Rietveld: un maestro che, una volta acquisito l’‘ABC dello spazio’, lo declina in un idioma personale altrettanto deciso e appassionato ma non necessariamente radicale e capzioso. Capace di misurarsi, di conseguenza, anche con il vernacolo.
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